Certame 2016 - UNITRE - Carmagnola

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Certame 2016

Attività extra

1° Premio: L’IMBARAZZANTE CASO DELLA SIGNORINA PRAJZEK  di  Angelo Tortone

La lettera arrivò a fine estate, in un venerdì piovoso e imbronciato. La aspettava da tanto tempo e ora che l’aveva finalmente fra le mani tremava per l’emozione e per la paura di ciò che il contenuto avrebbe potuto rivelarle. Quella fu l’ultima lettera che le recapitai, me lo ricordo bene.  La signorina Praizek, Helena Prajzek, ebrea di Polonia, era stata identificata, nel rapporto medico appositamente predisposto per il suo caso dal dottor Stauber, con il numero 351/b. Perché una miserabile ebrea destasse tanto interesse da tenerla in vita sino a quel momento, me lo sono sempre chiesto. In effetti, su tale argomento, le mie convinzioni sono rimaste immutate nel corso degli anni, e giudico la vita della signorina Prajzek non dissimile da quella di migliaia di individui mentalmente malati, una “vita indegna di essere vissuta” com’è peraltro scritto in modo eccellente nel saggio di Hoche e Binding del 1920, intitolato, per l’appunto, “Il permesso di annientare vite indegne di vivere”. Osservandone lo sguardo, i tremolii del corpo, i turbamenti del sonno, l’espressione catatonica con cui s’immobilizza per intere giornate, nulla mi fa mutare di opinione. E’ una vita che va estirpata immediatamente, “un guscio vuoto di essere umano”. Non c’è neppure bisogno di trovare una motivazione, essa stessa è inscritta in ogni cellula di quel corpo deforme. Ma tant’è. Io sono, o, per meglio dire, ero, un semplice postino, a cui era stato affidato il compito di recapitare fra quelle luride mani  quella stupida lettera. Questa era la stranezza della signorina Prajzek, quella cioè di scrivere lettere che recapitava a se stessa, come se le giungessero da parenti o amici, o da chi sa quale altra ammorbante genia. Il Reich mi aveva affidato tale compito, ed io, nel mio tempo libero dall’ufficio postale, registravo nel mio personale modesto rapporto lo scorrere di ogni giornata della numero 351/b, e il fluire monocorde con cui redigeva, in periodi diversi, le sue lettere. Come se dalle mie parole, le migliaia di parole che ho espulso non senza sforzo dal mio cervello, potesse venir fuori chissà quale illuminante considerazione. Certo, il plico settimanalmente redatto lo affidavo al dottor Stauber, il quale sapeva farne buon uso. Pensavo io. E ne ero sinceramente convinto. Per il resto, mia moglie era tanto orgogliosa di me, del compito affidatomi. E spesso portava al dottor Stauber le migliori mele raccolte nei campi di suo padre, mio suocero. Il dottor Stauber mi chiedeva di ricopiare, parola per parola, ciò che la numero 351/b scriveva nelle sue lettere, e che lei stessa poi affidava all’infermiera Helga Knaub affinché la imbucasse nella cassetta della corrispondenza. In realtà l’infermiera Helga Knaub le passava direttamente a me, perché era stata ampiamente informata e edotta sulla ricerca scientifica in atto sin da subito, il che vuol dire da almeno cinque anni. Tutto ciò che la numero 351/b produceva sotto forma di lettera, scritto, aforisma, invettiva, allucinazione, fantasia incontrollata, tutto ciò, ripeto, era diligentemente setacciato come si setaccia la sabbia di un torrente pieno di pagliuzze d’oro. Le menti migliori dell’ospedale psichiatrico di Gotenhafen erano riunite in questo sforzo, che non poteva - ero convinto anche di questo - che portare del bene per la Germania tutta, a maggior gloria del Fuhrer. Dunque, come decine di altre volte, la osservavo mentre abbrancava quella lettera, scritta penosamente di suo pugno, mentre tentava con goffi e maldestri tentativi di stracciare la busta  - miriadi di piccole gocce di sudore ne indicavano in modo palese il turbamento interiore quasi parossistico - e nell’istante esatto in cui ciò avveniva, è come se davvero avesse appena ricevuto una lettera dal contenuto ignoto. E le stesse espressioni del volto - di paura, di sorpresa, di miserabile gioia – stavano a indicare questa esattissima quanto patetica cosa. In lei non ho mai visto un’espressione quantomeno simile alla fierezza, al coraggio, all’onore, così abbondantemente presenti, invece, nella nostra razza. E’ una constatazione che viene spontanea semplicemente osservando la quantità di scritti che la 351/b ha prodotto negli anni, e che io ho diligentemente diviso in faldoni dai lacci di diverso colore. Per la verità ho pensato molto a come organizzare il mio lavoro, perché la quantità è davvero notevole – siamo, è chiaro, in presenza di una folle grafomane ebrea – ed anche gli argomenti sono molteplici ed eterogenei. La maggior parte non sono lettere, ma semplici bigliettini vergati in ogni momento della giornata. Il faldone dai lacci neri è ovviamente il più importante, perché contiene espressioni di disapprovazione, insulti, invettive contro il Fuhrer e la sua nobile missione. Queste, appena intercettate dall’infermiera Helga Knaub, erano recapitate personalmente da me al dottor Stauber; così mi era stato ordinato e cosi facevo. Mia moglie era molto soddisfatta della suddivisione dei colori dei lacci, che trovava appropriati al tono degli scritti; per esempio nel faldone dai lacci rossi avevo racchiuso gli scritti vagamente morbosi, non dico sessuali perché la razza ebrea per certi tipi di argomento è ancora ferma ad un primitivismo da cui mai si sottrarrà. In quello dai lacci blu erano presenti tutte quelle frasi che nulla avevano di reale, partorite da una bestia, senza alcun lato umano, in effetti. Mi ricordo di una che parlava dei fiori che esisterebbero sulla luna, e persino del modo nel quale debbano essere coltivati “a quelle latitudini”. Da sbellicarsi dalle risate. Tutto ciò era quindi meticolosamente catalogato nei faldoni dai lacci di otto colori - bianco, nero, blu, grigio cenere, rosso, grigio ardesia, verde militare, grigio talpa,  – e scrupolosamente copiato con la mia macchina per scrivere Continental Wanderer Werke, che mi era costata una fortuna; e mia moglie, ogni volta che usciva a portare il plico al dottor Stauber - e questo, come ho detto in precedenza, capitava tutte le settimane - mi dava una carezza e ci appiccicava un sorriso che avrei giurato fosse amore. Alle mele, con il tempo, si erano aggiunti altri doni agricoli che in questo sperduto paesino sul Baltico non erano trascurabili neppure per un dottore di fama come Stauber.  Il caso volle che l’ultima lettera la recapitai alla nr. 351/b il giorno stesso in cui mia moglie avrebbe dovuto consegnare il plico settimanale al dottor Stauber, lì dove il luminare attendeva alle sue alte funzioni scientifiche, nella clinica di Gotenhafen. Sarebbe stata normale routine, se non che quando vidi l’infermiera Helga Knaub venirmi incontro trafelata, con un biglietto fra le mani, capii immediatamente che quel biglietto avrebbe fatto parte, insieme a tanti altri, di quella serie di invettive presenti nel faldone nero. L’infermiera era furiosa, picchiò davanti a me la numero 351/b, la quale non sembrò neppure coinvolta da quanto la riguardava, non tentò una sola volta di ripararsi dagli schiaffi sulle guance e dai pugni sul seno. Ricordo che non lessi neppure le parole del biglietto, ma mi precipitai a casa pedalando a più non posso, nella speranza di trovare ancora mia moglie. Evidentemente l’autista del dottor Stauber era già passato, perché rannicchiato sulla poltrona c’era soltanto il gatto, che si riposava dopo la sua passeggiata al porticciolo. Per nulla scoraggiato, inforcai di nuovo la bicicletta, e scesi come un pazzo il tratto di strada non asfaltata che dal manicomio, scendeva giù verso il centro abitato e la clinica. Davanti all’edificio c’erano due soldati di guardia, intenti a fumarsi di nascosto una sigaretta. Mi conoscevano da un pezzo, sapevano che non l’avrei detto a nessuno, in ogni caso schiacciarono le cicche sotto gli stivali. Ci sorridemmo da buoni complici, ed io salii a sinistra la scalinata di marmo che curvava verso i reparti del dottor Stauber. Non ero stupito dall’assenza di personale, perché era domenica, sapevo che il dottor Stauber amava lavorare anche la domenica, e il più delle volte riceveva mia moglie in quel giorno, per aver modo di consultare con più calma il materiale da me predisposto. Pensavo io. E ne ero sinceramente convinto. Arrivai davanti alla porta di legno di noce dello studio di Stauber, ancora accaldato per la lunga corsa. Bussai con frenesia. E senza attendere oltre, spinsi la porta. Ricordo che avevo ancora lo sguardo abbassato per cercare il biglietto perso in una delle troppe tasche dei pantaloni, e stavo per pronunciare qualche parola di saluto, immagino, quando sollevai lo sguardo. Davanti a me, il dottor Stauber, del tutto nudo tranne due orribili stivali da ufficiale, era intento a copulare con evidente bramosia e piacere in mezzo alle gambe decisamente aperte di quella baldracca di mia moglie. Se uso questo termine disdicevole è soltanto perché in quell’istante raggiunsi una notevole chiarezza di comprensione della serie di eventi, motivazioni, e susseguirsi di concatenazioni che hanno dato vita allo studio scientifico ampiamente sopra descritto da me come l’imbarazzante caso della signorina Prajzek.  
Ora mi trovo qui, dopo aver aperto con un tagliacarte la natica sinistra del dottor Stauber, e dopo essere stato fermato dal commettere cose ancora peggiori, dai due fumatori di guardia. Il qui mi è molto evidente. Il qui dove sono ora è un semplice autobus postale Gegrak ermeticamente chiuso, dai vetri anneriti. Il qui dove mi trovo si chiama, in modi più asettici, “Programma Aktion T4”, programma di eutanasia per malati mentali. Insieme con me, legati da sottili, indistruttibili catene, ciascuno al loro posto di morte, perfettamente allineati - perché almeno nella morte occorrono ordine e disciplina - una cinquantina di pazzi, schizofrenici, macrocefali, idrocefali, spastici, che non si chiederanno mai perché i tubi di scappamento, anch’essi ermeticamente sigillati, sono rivolti all’interno. Neppure io me lo chiedo. Perché lo so. Fa freddo dentro questo vecchio autobus postale. Maledettamente freddo. Ti chiedi come hai fatto a lavorarci per anni, senza mai lamentarti. In effetti, a pensarci bene, il suo specifico compito è questo, togliere calore a chi vorrebbe ancora sentirlo fluire nelle vene, togliere la vita a chi vorrebbe ancora le ultime coordinate per ritornare nel perimetro della normalità. Smorzare gli universi nel cervello, a chi di questi universi ne immagina sempre uno di troppo. Sempre uno sbagliato. Più via di fuga che concretezza. Più tradimento che fedeltà. L’individualismo porta al teatrino delle marionette, al sussurro rauco del disordine, e noi non vogliamo questo, vero, postino? Sì, è proprio un buon posto per morire, ne sono sinceramente convinto. In alto, la luna spacca il buio con bagliori e carezze, lì dove crepe di trasparenza mal verniciate lasciano passare il suo respiro di luce. Un profumo di fiori mai sentiti prima arriva di lassù. E dilaga, incontenibile, dentro le narici.
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           
2° premio: PET THERAPY, UNA FAVOLA DEI GIORNI NOSTRI  di Gian Antonio Bertalmia

La lettera arrivò a fine estate, in un venerdì piovoso e imbronciato. La aspettava da tanto tempo e ora che l’aveva finalmente tra le mani tremava per l’emozione e per la paura che aprendo quella busta il mondo gli sarebbe caduto addosso. L’aprì adagio, quasi con rispetto e, quando lesse parole come tribunale, giudice, condanna, notifica, sentì sotto ai suoi piedi aprirsi il buco nero della disperazione. Solo allora, alzando gli occhi, si accorse dell’artigiano che stava cambiando la serratura alla porta del suo appartamento. Uscì mentre mille pensieri confusi gli affollavano la mente e, con gli occhi sbarrati dalla paura, fece appena in tempo a vedere che un carro attrezzi gli stava portando via l’auto. Si precipitò allora verso la sua banca correndo affannosamente e urtando gli altri passanti. Ma, quando finalmente arrivò il suo turno un impiegato, che recitava benissimo la parte di chi prova pena, turbamento e contrarietà, gli disse che il suo conto era stato chiuso. Quello era stato il suo ultimo giorno da uomo. Aveva avuto un lavoro, una famiglia, una casa, una vita normale. Ma quella lettera aveva cancellato tutto.
Adesso non ha più niente. Tutta la sua vita è scomparsa piano, piano. Sono scomparsi anche gli amici, anche quelli che credeva più fedeli. Anche la dignità e il pudore lo hanno abbandonato e il loro posto è stato preso dalla vergogna e dall’ignominia. Appartiene ancora al genere umano, ma non è più un uomo. È come la foglia di un albero che appassisce in mezzo alle altre foglie. Continua ad esistere ma non a vivere. Fin ché cadrà a terra e sarà calpestata senza pietà. E lui è caduto per terra ed è stato calpestato. I suoi giorni sono lenti e uguali come la pioggia di quel nebbioso autunno. Vestito con quel maglione blu alla Marchionne e avvolto in quello che una volta era stato un cappotto alla moda,  passa le giornate in un angolo sotto i portici, davanti alla farmacia. Davanti a lui un berretto raccoglie il contributo dell’umana benevolenza. Sono poche monetine lasciate per lo più da bambini alla scoperta di un gioco nuovo. Poi, alla sera, si sposta sul retro di una pizzeria e aspetta che il cameriere esca con il sacco nero dell’immondizia. Dentro il sacco ci sono tutti gli avanzi dei tavoli. Lui pesca gli avanzi di pizza, qualcuno è ancora quasi caldo, e consuma la sua abbondante e squisita cena. Quando riesce compra una bottiglia piena di uno di quei vini che non hanno mai conosciuto l’uva, e si ubriaca. Poi si avvolge nella coperta che ha acquistato con gli ultimi soldi che aveva nel portafoglio e si sdraia su una griglia del marciapiede. La griglia è lo sfiato del forno della panetteria ed emana, per tutta la notte, un tepore dolce e continuo. E al mattino ricomincia ad essere ma non a vivere. È solo, solo come un cane. O meglio solo come un barbone. Seduto in quell’angolo davanti alla farmacia guarda, senza volontà e senza coscienza, quell’andirivieni di persone indistinte e sconosciute che affollano i portici, la strada, i tram. Lui si sente come un prigioniero chiuso in una cella senza sbarre ma dalla quale non può fuggire. Attorno a lui c’è un muro altissimo, c’è il muro della gente normale. È un muro tirato su con i mattoni dell’indifferenza, intonacato con strati di indolenza e sormontato dal ferro spinato dell’odio e dell’intolleranza. Ma una sera, quando solleva la testa dal sacco nero degli avanzi di pizza, lo vede. Lui è lì, immobile, seduto sulle zampe posteriori, che lo guarda. Anche lui fissa per un lungo attimo quel cagnolino bianco con il pelo lungo. Poi rompe un pezzo di pizza e glielo porge. Il cagnolino lo divora senza nemmeno annusarlo confessando così il suo appetito. E così, un boccone dopo l’altro, fanno cena insieme in silenzio, guardandosi negli occhi. Poi lui, come ogni sera, si avvolge nella coperta e si sdraia sulla griglia della panetteria. A quel punto il cagnolino si avvicina, lui allora alza la coperta e il cagnolino si sdraia accanto a lui. E in quell’istante una piccolissima gemma spunta su quel ramo secco che lui era diventato. Adesso sotto i portici, nell’angolo di fronte alla farmacia, davanti ad una mummia avvolta in una coperta lurida, c’è un berretto per le monetine e un cagnolino seduto sulle zampe posteriori. Adesso la gente che passa si ferma un attimo, accarezza e dice una parola dolce al cagnolino, getta un’occhiata di disprezzo nei suoi confronti e lascia una monetina nel berretto. Passano anche dei cagnolini vestiti con cappottini alla moda, tenuti al guinzaglio da signore impellicciate, che boriosi e spocchiosi, ignorano sia lui che il cagnolino. La presenza di quel cagnolino ha fatto aumentare le elemosine, così adesso, oltre alla bottiglia di quell’orribile vino, ogni tanto può permettersi un altrettanto orribile sigaro. Ma la presenza di quell’animale ha anche risvegliato in lui qualche cosa che pensava spento per sempre. Si ricordava di aver letto, quando ancora viveva e non vegetava, qualcosa sulla terapia con animali e aveva sorriso. Aveva letto che in alcune cliniche, case di riposo e comunità di recupero, si era fatto ricorso alla terapia con animali. Pet Therapy, gli sembrava di ricordare che si chiamasse Pet Therapy o qualcosa del genere. Secondo quella terapia, il calore affettivo che gli animali sono in grado di trasmettere, può calmare l’ansia e può aiutare a superare la depressione e lo stress. Quel batuffolo di peli bianchi che è seduto davanti a lui, non ha fatto tutto questo, però ha soffiato sulla cenere che avvolge la brace del suo cuore e un piccolo tizzone ha ricominciato a rosseggiare. I ragazzi arrivano avvolti in felpe con su scritto il nome di una associazione per la protezione e la raccolta dei cani randagi. Lui non si rende nemmeno conto di quello che sta accadendo. I ragazzi agiscono in fretta, sono organizzati. Sollevano il cagnolino e lo mettono in una gabbia. Poi scappano, incuranti del suo abbaiare disperato, su un furgone dal quale provengono parecchi latrati  rabbiosi e guaiti lamentosi. Mentre scappano la gente applaude urlando elogi. Quando si rende conto di quello che è successo lui si mette a piangere. Le sue sono lacrime di dolore e di rabbia. Vorrebbe parlare con quei ragazzi, vorrebbe chiedere perché proteggono e raccolgono un cane randagio e non proteggono e raccolgono un uomo randagio. Perché quel cane sarà portato in un canile dove troverà vitto e alloggio e lui non può essere portato in un ospizio? Perché non fondano una associazione per la protezione dei barboni e li raccolgono insieme ai loro cani? Non si sono mai chiesti cosa rappresenti un cagnolino per un barbone e un barbone per un cagnolino? Il loro è un legame d’amore, un legame d’amore usato addirittura come terapia, e spezzare un legame d’amore è una cosa crudele e abominevole. Portando via il cagnolino a un barbone lasciano un uomo distrutto, un uomo finito e allora perché non lo ammazzano? Liberare i cani e ammazzare i barboni, ecco, questa sarebbe una vera opera di misericordia. E aumenterebbero pure gli applausi della gente normale. Anche oggi è venerdì. Un venerdì piovoso e imbronciato proprio come il giorno che ha ricevuto la lettera che ha distrutto la sua vita. Appoggiato al parapetto del ponte, guarda il fiume che scorre lento e uguale. Il fiume è grigio e imbronciato come il cielo. Una foschia di nebbia e smog, cancellando l’orizzonte, gli da un aspetto irreale. Quel cagnolino occupava una parte importante nella sua vita, era l’unica cosa che gli dava la voglia di continuare ad essere. La sua amicizia era schietta e genuina, senza interessi. Veniva a coricarsi vicino a lui anche se quella sera dal sacco nero della pizzeria non usciva niente. Da quando aveva ricevuto quella maledetta lettera lui aveva vissuto come una larva, come un verme sotto terra. Quella lettera gli comunicava che avrebbe perso tutto ma il nome del cagnolino in quella lettera non c’era. E quel cagnolino aveva dato una pennellata di azzurro a quel cielo grigio e imbronciato che lo avvolgeva.  Si guarda ancora una volta intorno girando gli occhi lenti pieni di sofferenza e sconforto. Ha deciso, la farà finita con questo mondo disgustoso e ingrato. Alza una gamba e scavalca il parapetto deciso a buttarsi di sotto. E in quel momento, come in una realtà inesistente ma vagheggiata, come in un sogno irraggiungibile ma fortemente desiderato, gli sembra di sentire un abbaiare lontano. Si guarda attorno quasi senza volontà e senza coscienza. e lo vede. Il suo cagnolino sta correndo verso di lui abbaiando disperatamente. È riuscito a scappare dal canile e adesso è lì vicino a lui che gli abbaia arrabbiato, come se volesse sgridarlo, ma scodinzola anche in segno di festa. Lui si china, lo raccoglie e lo stringe a sé coprendolo di baci. Il cagnolino guaisce di gioia e gli lecca le guance raccogliendo le lacrime che scorrono copiose. Altro che Pet Therapy! Quel cagnolino gli ha salvato la vita. Stasera faranno festa e lui spera che nel sacco nero degli avanzi della pizzeria, ci sia un bel pezzo di pizza “formaggio e salamino piccante” perché al cagnolino è quella che piace di più.
                                                                                                                                                                                                                                                                                       

3° premio:  UN AMORE PICCOLO di Antonella Operti

La lettera arrivò a fine estate, in un venerdì piovoso e imbronciato. La aspettava da tanto tempo e ora che l'aveva finalmente tra le mani, tremava per l'emozione e per la paura che quella lettera aveva riportato con sé dopo tanti anni.
La busta era una normale busta bianca da lettere che poteva contenere qualsiasi cosa, solo il suo indirizzo scritto a mano era stato per lui rivelatore della fonte. Conosceva bene quella calligrafia  fatta di lettere con angoli acuti, impenetrabili, spigolosi, difficili da sondare come era lei, come chi l'aveva scritta: difficile da capire, ermetica, ma proprio per questo affascinante,  una sfida era riuscire ad interpretarla. La tenne in mano, la soppesò: era leggera, forse un foglio A4 sicuramente non più di due. Si sorprese ad annusarla, accarezzarla delicatamente con cura. L'aveva aspettata tanto e ora che era fra le sue mani, continuava a fissarla attonito, senza sapere bene cosa farne, impacciato e intimorito.  Con i polpastrelli delle dita ne delineò i contorni, soffermandosi sulla parte incollata: prima ne stirò bene la carta poi con l'unghia del mignolo ne alzò impercettibilmente i bordi con gesti lenti e delicati. Fermandosi  bruscamente però mentre si accorse della mancanza del mittente, capendo così il perché della scelta della lettera e non di un e-mail o di una telefonata. Probabilmente lei non voleva essere rintracciata. Lui ormai di lei non sapeva più nulla o quasi. Solo le notizie ufficiali.
Anche se chiunque avrebbe potuto reperire facilmente sue notizie. Lei era famosa, conosciuta in tutto il mondo come la “ professoressa Baldini”, la migliore nel suo campo, i casi disperati si rivolgevano a lei, sicuri che la grande neurochirurga avrebbe fatto il miracolo. Perché lei di miracoli ne faceva veramente nel suo lavoro. Era brava davvero. Aveva lavorato nei più grandi ospedali e cliniche americane, inglesi, francesi; in Giappone era diventata una celebrità mondiale avendo sviluppato una tecnica innovativa per operare endoscopicamente sul lobo frontale del cervello. Il suo nome nell'ambiente medico era pronunciato con reverenza e invidia. Lei, donna, partita da un paesino sperduto delle valli cuneesi era arrivata alla cima e forse anche oltre, del mondo medico e scientifico. Ma a quale prezzo? Nessuno lo sapeva o se sapeva non diceva. Ma lui sì, sapeva cosa lei aveva sacrificato per quella sua passione, o forse sarebbe stato meglio dire per quel suo demone, il demone della scienza. Non sicuramente per la carriera, quella no, a lei non importava. A lei importava solo operare, aprire scatole craniche e aggiustare le cose che lì dentro avevano deciso di non funzionare più per poi rivedere i suoi pazienti di nuovo con una speranza lì dove sembrava non ce ne fossero. Aveva lavorato tanto, ore e ore passate a studiare, a operare, a sperimentare, non si era mai risparmiata. Lui se la ricordava ancora così a distanza di anni: sua madre, la dottoressa Baldini, che arrivava a casa esausta dal turno di chissà quante ore in ospedale, gli dava una carezza, un bacio lieve e veloce, poi ancora un altro appena più marcato e poi un altro ancora, più rumoroso e più forte mentre gli diceva: “ ti mangio di baci, amore mio piccolo”. Lasciava allora l'abbraccio e si fiondava sotto la doccia e poi a dormire poche ore, che subito doveva andare di nuovo via, a studiare, a operare o ad un convegno o ad una lezione. Via da lui, che era solo un piccolo amore. L'amore grande era un altro per lei... e non erano né il figlio, né il marito, né la casa, né la loro famiglia. Lei era così. Sempre frettolosa, impegnata in qualcos'altro, proiettata  verso un progetto, una scoperta, quel demone che si era impossessato di lei era esigente e non le lasciava tregua fino a quando non veniva saziato. Ritornava  stanca e imbronciata a casa dal lavoro e non vedeva l'ora di uscire di nuovo, verso nuovi progetti, nuove opportunità, nuova vita. A casa lei era triste o scocciata. Quanti sospiri aveva sentito lui da sua madre! Sospiri di rassegnazione, sopportazione, ma mai di rinuncia. Lei non avrebbe mai rinunciato, mai si sarebbe arresa: andava dritta al suo obiettivo e il suo obiettivo era il suo lavoro. Viveva per quello e solo per quello, tutto il resto era escluso o solo marginale. Anche lui non faceva parte dei suoi piani, lui era solo un piccolo amore, trascurabile, a volte quasi inesistente. Eppure l'aveva amata e desiderata tanto. Aspettava il suo ritorno vigile, sempre pronto a scattare appena lei varcava la soglia. Voleva essere il primo a essere visto, il primo a salutarla, a baciarla. In quei momenti lei era sua, fra le sue braccia si sentiva felice e appagato. Ancora adesso, dopo quarant'anni, ricorda il calore che emanava dal corpo di lei, un calore tiepido, umido, un odore dolce e pungente fatto di fatica, di pesantezza, di dolce abbandono alla stanchezza con cui lo avvolgeva. Gli diceva: “sei il mio piccolo amore” e lui era felice di essere il suo piccolo amore, solo suo e nessuno mai avrebbe potuto togliergli quel diritto. Stava delle ore a guardarla scrivere o a studiare con una matita poggiata alle labbra e lo sguardo concentrato, così concentrato che non si accorgeva nemmeno di quel piccolo bambino con gli occhi adoranti che le sedeva accanto giocando senza fare troppo rumore. Presenza discreta passava nella vita della madre sempre ai margini, a volte neanche sfiorando i pensieri di colei che invece era l'epicentro del suo piccolo mondo. Ma un giorno lei se ne era andata. Lui aveva solo sei anni, ma il ricordo di quel giorno era rimasto incollato alla sua memoria con un mastice così potente che era diventato un tutt'uno con il suo essere. Era cresciuto con lui, con quel ricordo era diventato grande, aveva compiuto 18 anni, si era laureato, aveva affrontato il suo primo giorno di lavoro, si era sposato, era diventato padre, e quel ricordo era rimasto lì inalterato, abbarbicato al suo cuore e al suo cervello: la madre che con gli occhi asciutti, con i capelli spettinati e una sola valigia, se ne era andata. Lui si ricorderà per sempre quella scena, la rivive come un film alla moviola, una scena banale da film dozzinale: lei che si gira una volta sola a guardarli, sale sul taxi e non si volta più. Lui e suo padre, che come due cani abbandonati sull'autostrada rimangono lì fermi, la sua piccola mano in quella grande del padre, che stupito guarda la moglie allontanarsi. Non versano lacrime, non parlano, alzano solo le mani libere in segno di saluto. La sua, piccolina, piena di ciao, quella grande del padre piena di addii. Restano muti, glaciali guardando il taxi che già si allontana sempre di più, consapevoli di averla persa per sempre, anche se da tempo sapevano che lei non era più loro. Il loro mondo, la loro casa, la loro famiglia, il loro amore era troppo insignificante, troppo inutile, troppo soffocante … troppo piccolo per lei.
Quel mattino, lui e il padre erano rimasti lì fermi fino a quando avevano visto la macchina confondendosi in mezzo alle altre senza più riuscire a distinguerla. Allora il padre gli aveva stretto ancora più forte la mano e guidandolo verso casa gli aveva detto: “tua madre è una grande donna, dobbiamo lasciarla andare per la sua strada. Noi due sapremo cavarcela”. Non ne avevano più parlato di quel momento: troppo doloroso per entrambi. All' inizio lui l'aveva aspettata. Sperava che prima o poi sarebbe ritornata su quello stesso taxi con cui era andata via. Quando sentiva una macchina fermarsi vicino al loro cancello o quando suonavano alla porta lui si precipitava a vedere se era lei. Ma lei non c'era mai. Dopo un po' non era più andato, non perché avesse capito ma semplicemente si era abituato all' assenza della madre e si era concentrato sul presente quotidiano di quell'assenza. Ogni tanto arrivavano notizie sui progressi e sui relativi successi della madre, ma lui non l'aveva più né rivista, né sentita e a poco a poco la madre era diventata la professoressa Baldini anche per lui. La sua presenza era data da una cartolina al suo compleanno, un regalo con un biglietto di auguri a Natale. Con il passare degli anni il regalo era sempre meno adatto alla sua età e il biglietto sempre più banale e breve, segni che rivelavano l'inadeguatezza di quella madre verso suo figlio. Ora quella stessa calligrafia era lì davanti ai suoi occhi. Più la fissava, più i ricordi affioravano e con essi riaffiorava la rabbia. La rabbia sorda e profonda, dura come una colata di lava sedimentata nel tempo sul suo cuore di bambino ormai diventato adulto. La rabbia gli faceva tramare le mani e più ricordava più stringeva quella busta mentre la collera gli premeva alla gola, soffocandolo. Si chiese perché quella donna ora si faceva viva? Con una lettera per giunta e senza neanche il coraggio di guardarlo in faccia! Eppure quella donna era sua madre, la grande assente della sua vita seppur con la sua presenza così ingombrante. Cominciò a rigirare quella lettera fra le mani, e più la rigirava e la teneva stretta, più diventava impellente il bisogno di liberarsene. Quei piccoli caratteri tracciati a penna sulla busta erano riusciti a graffiare la crosta granitica di cui si era avvolto strato dopo strato, anno dopo anno, cercando di lenire la sofferenza che il ricordo gli provocava, cristallizzandolo in quell'involucro duro e protettivo grazie a cui era riuscito a sopravvivere fino a quel momento. Ma ora quei segni sulla carta avevano cominciato a sgretolare quella solida scorza, pezzo per pezzo, trasformandola in sabbia e polvere che aveva lentamente cominciato a riempire i suoi occhi, penetrare nella gola, invadere i suoi polmoni, togliendogli l'aria. Doveva liberarsi di quella lettera o tutto il suo mondo sarebbe crollato miseramente sotto il peso di tutta quella polvere. Disperato guardò ancora una volta la lettera che teneva fra le mani e con feroce dolore cominciò a stracciarla, strappandola in piccoli pezzettini, sempre più minuti fino a farne coriandoli che buttò via al vento, lì davanti alla cassetta delle lettere e osservandoli turbinare nell'aria confondendosi con la polvere della strada, vide chiaramente come lei era riuscita a buttare via al vento anche quel suo unico piccolo amore. Scrollò le spalle, togliendosi di dosso granelli immaginari di tutta quella polvere, girò la schiena e se ne andò senza neanche voltarsi indietro una volta.

 
 
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